Dato che mi sono preso un po' indietro e difficilmente in questo periodo troverò il tempo di recuperare, ho deciso di fare un post bouillabaisse con i film incriminati. Partiamo subito.
Iron man (2008) di Jon Favreau
Cosa si poteva chiedere di più?
C'è l'armatura, perfetta nella sua possenza, c'è Robert Downey Jr. in uno dei suoi migliori ruoli, c'è la Paltrow finalmente a suo agio nei brillanti panni della segretaria Pepper Pots, c'è un irriconoscibile Jeff Bridges perfetto cattivo, e alla fine dopo i titoli persino l'incredibile siparietto che lascia presagire altro...
I film basati sui supereroi spesso nascondono dietro l'allettante licenza l'opzione pacco, in quanto basta poco per passare dalla meraviglia di fronte ai beniamini portati sullo schermo al b-movie senza scampo. Per buttare via un soggetto interessante come Iron Man sarebbe bastato un attimo, mentre Favreau intelligentemente sceglie di lasciare campo aperto alla grande interpretazione del protagonista, che dosa perfettamente lo humor creando un personaggio cazzaro ma piacevole, sempre sopra le righe ma mai macchietta, tanto che ora sembra impossibile immaginare un Tony Stark diverso. E se mi arrischio a dire che siamo a livello del miglior Sam Raimi, non tiratemi le pietre...
Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant
La nuova opera del grande regista indipendente americano ipnotizza fin dall'inizio. Sceglie di raccontare una storia comune come solo lui sa fare, modellando la luce, i colori con una maestria forse unica nel panorama attuale, e trasformando un fatto centrale che potrebbe essere raccontato con poche frasi in uno straziante racconto di crescita adolescenziale, senza inutili moralismi ma implacabile specchio di una quotidianità che riesce a spaventare per la sua attinenza e spietata precisione. Non succede quasi nulla, ma il dramma è di assoluta potenza. E la scena che spezza in due il film, quella della presa di coscienza del giovane protagonista sotto la doccia, lascia senza parole per l'incredibile uso di luce e ombre nel creare una vera e propria odissea nelle profondità dell'animo umano. Possono essere accusati di essere solo virtuosismi, ma quanti riescono a smuovere come ancora sa fare Van Sant?
Il resto sono inutili critiche...
Halloween (2007) di Rob Zombie
Sembrava poter essere il film con cui Rob Zombie dava il colpo finale, ed invece dovremmo ancora aspettare un po'...
Un inizio magistrale che ci racconta l'infanzia di Michael Myers viene stemperato dalla seconda metà in cui, forse per timore nei confronti del materiale originale, il regista fa solamente il suo dovere, senza quel tocco che abbiamo imparato ad amare. Siamo sempre sopra la media dei tanti brutti film horror simili, ma le sue capacità sono tutt'altra cosa e dispiace vederle sprecate.
Sheri Moon Zombie nella sua bellezza all american mista schizofrenia resta indiscutibilmente una presenza magnetica, che da sola porta avanti la storia, e non dimentichiamo la piccola parte di Danny Trejo, che forse per la prima volta viene caratterizzato con dei sentimenti (!).
Promosso solo perché ti conosciamo, Rob!
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martedì 27 maggio 2008
domenica 6 aprile 2008
The Nines (2007) di John August
Pensavo di aver visto il lavoro di sceneggiatore sviscerato in ogni suo dettaglio nel notevole Il ladro di orchidee, ma qui siamo un passo avanti, metacinema allo stato puro.
John August, collaboratore fisso di Tim Burton (il mestiere si vede in ogni scena), se ne esce con il primo lungometraggio alla regia e parte con il botto. La trama e' una sorpresa dall'inizio alla fine, ma a grandi linee racconta in capitoli tre storie apparentemente separate ma la cui tematica unificante apparirà chiara solo nel finale. Mentre la prima parte e' girata in bilico fra commedia e thriller, utilizzando gli stilemi propri di molto cinema USA moderno ma con personalità, la seconda e' interamente ripresa dal punto di vista dell'operatore di camera in un reality che segue lo sceneggiatore di un serial in produzione (!!!!). A parole sembra complicato, ma su schermo viene resa benissimo la dicotomia tra il creatore (sceneggiatore) e il creato (serial), che a loro volta sono oggetto di un medium esterno, il reality, con notevoli implicazioni: per il creatore e' importante realizzare il serial, anche a costo di spiacevoli scelte che sono pero' positive per la realizzazione stessa dell'opera, mentre nell'ottica reality piu' le cose si complicano e precipitano tanto migliore e piu' godibile e' il prodotto. E non a caso il protagonista confessa di cominciare a confondere la realtà con suo script, sentendosi come osservato da sé stesso mentre vive la propria vita. Senza tralasciare il tema dell'identità, siamo di fronte a un trattato sull'essenza stessa della realtà e la sua percezione, con linguaggio cinematografico.
E quindi arriva la terza parte che, con stile da fiction televisiva (e qua ci ricolleghiamo alla stratificazione dei medium) stravolge e reinventa la storia in modo tanto inaspettato quanto soddisfacente, senza forzature e con il piacevole senso di circolarità delle migliori opere.
Non si dimentica facilmente la poliedrica interpretazione di Ryan Reynolds, che ora seguirò con piu' attenzione, e l'incredibile presenza di Melissa McCarthy, che illumina ogni scena col suo sorriso, mentre lascia senza fiato l'accompagnamento sonoro, soprattutto nella parte iniziale e quella conclusiva.
Ed ora cercate gli altri 9, dato che questo film lo e' di sicuro un bel 9.
John August, collaboratore fisso di Tim Burton (il mestiere si vede in ogni scena), se ne esce con il primo lungometraggio alla regia e parte con il botto. La trama e' una sorpresa dall'inizio alla fine, ma a grandi linee racconta in capitoli tre storie apparentemente separate ma la cui tematica unificante apparirà chiara solo nel finale. Mentre la prima parte e' girata in bilico fra commedia e thriller, utilizzando gli stilemi propri di molto cinema USA moderno ma con personalità, la seconda e' interamente ripresa dal punto di vista dell'operatore di camera in un reality che segue lo sceneggiatore di un serial in produzione (!!!!). A parole sembra complicato, ma su schermo viene resa benissimo la dicotomia tra il creatore (sceneggiatore) e il creato (serial), che a loro volta sono oggetto di un medium esterno, il reality, con notevoli implicazioni: per il creatore e' importante realizzare il serial, anche a costo di spiacevoli scelte che sono pero' positive per la realizzazione stessa dell'opera, mentre nell'ottica reality piu' le cose si complicano e precipitano tanto migliore e piu' godibile e' il prodotto. E non a caso il protagonista confessa di cominciare a confondere la realtà con suo script, sentendosi come osservato da sé stesso mentre vive la propria vita. Senza tralasciare il tema dell'identità, siamo di fronte a un trattato sull'essenza stessa della realtà e la sua percezione, con linguaggio cinematografico.
E quindi arriva la terza parte che, con stile da fiction televisiva (e qua ci ricolleghiamo alla stratificazione dei medium) stravolge e reinventa la storia in modo tanto inaspettato quanto soddisfacente, senza forzature e con il piacevole senso di circolarità delle migliori opere.
Non si dimentica facilmente la poliedrica interpretazione di Ryan Reynolds, che ora seguirò con piu' attenzione, e l'incredibile presenza di Melissa McCarthy, che illumina ogni scena col suo sorriso, mentre lascia senza fiato l'accompagnamento sonoro, soprattutto nella parte iniziale e quella conclusiva.
Ed ora cercate gli altri 9, dato che questo film lo e' di sicuro un bel 9.
domenica 24 febbraio 2008
Battle Royale (2000) di Kinji Fukasaku
Oggi ho finalmente trovato l'occasione di guardare un film che aveva suscitato il mio interesse un bel po' di tempo fa. E' tanto che l'ho da parte, e cosi' mi sono gustato direttamente la Director's Cut.
Geniale l'idea e geniale la messa in scena: il governo giapponese, esasperato dalla gioventu' incontrollabile, inventa un terribile gioco di sopravvivenza in cui una classe di adolescenti (selezionata casualmente) viene portata su un'isola disabitata e lasciata la' per tre giorni ad uccidersi, tempo entro il quale deve restare un unico sopravvissuto, pena la morte di tutti i rimasti.
La trama, che poteva essere un pretesto per uno splatter/horror fatto solo di un susseguirsi di morti sempre piu' assurde, si eleva e riesce ad essere un susseguirsi di morti sempre piu' assurde, ma che vince nel dare quel qualcosa in piu', che trasforma il film in classico istantaneo. Le scenette d'amore fuori luogo solo all'apparenza mentre la gente muore ovunque, l'elenco aggiornato delle morti con tanto di matricola e giocatori restanti, l'interessante elemento casuale dell'arma assegnata ad ognuno, i campi lunghi con i soldati messi come giocattoli... tutto si amalgama nel creare un'atmosfera che sbilancia, essendo plausibile e surreale allo stesso tempo. Si vedono relazioni nascere e crollare come si potrebbe assistere ogni giorno osservando dei gruppi di ragazzi, ma tutto ingrandito dalla lente della morte sempre incombente. La sopravvivenza porta all'esasperazione le situazioni, elimina l'ipocrisia della vita moderna con una semplicita' terribilmente spietata. E il labirinto di amicizie, odi, amori degli studenti protagonisti (e dei giovani in generale) e' quanto di piu' incomprensibile possa esistere per l'adulto. Il maestro Kitano, interpretato da un favoloso Takeshi Kitano, fa quasi pena nel suo tentatvio di comprensione. Anche messo di fronte alla linearita' creata dalla situazione, non riesce ad avvicinarsi al pensiero di questi giovani, e resta un alieno che arranca alla cieca in un mondo per lui incomprensibile, vittima quasi piu' che carnefice, prima dipinto come persona di potere ma poi trattato come un idiota perfino al telefono da sua figlia. E arrivato alla fine, confuso, chiude il film con una frase che mi ha gelato nel suo totale tono di sconfitta: "Cosa pensi che dovrebbe dire un adulto ad un ragazzo ora?"
Geniale l'idea e geniale la messa in scena: il governo giapponese, esasperato dalla gioventu' incontrollabile, inventa un terribile gioco di sopravvivenza in cui una classe di adolescenti (selezionata casualmente) viene portata su un'isola disabitata e lasciata la' per tre giorni ad uccidersi, tempo entro il quale deve restare un unico sopravvissuto, pena la morte di tutti i rimasti.
La trama, che poteva essere un pretesto per uno splatter/horror fatto solo di un susseguirsi di morti sempre piu' assurde, si eleva e riesce ad essere un susseguirsi di morti sempre piu' assurde, ma che vince nel dare quel qualcosa in piu', che trasforma il film in classico istantaneo. Le scenette d'amore fuori luogo solo all'apparenza mentre la gente muore ovunque, l'elenco aggiornato delle morti con tanto di matricola e giocatori restanti, l'interessante elemento casuale dell'arma assegnata ad ognuno, i campi lunghi con i soldati messi come giocattoli... tutto si amalgama nel creare un'atmosfera che sbilancia, essendo plausibile e surreale allo stesso tempo. Si vedono relazioni nascere e crollare come si potrebbe assistere ogni giorno osservando dei gruppi di ragazzi, ma tutto ingrandito dalla lente della morte sempre incombente. La sopravvivenza porta all'esasperazione le situazioni, elimina l'ipocrisia della vita moderna con una semplicita' terribilmente spietata. E il labirinto di amicizie, odi, amori degli studenti protagonisti (e dei giovani in generale) e' quanto di piu' incomprensibile possa esistere per l'adulto. Il maestro Kitano, interpretato da un favoloso Takeshi Kitano, fa quasi pena nel suo tentatvio di comprensione. Anche messo di fronte alla linearita' creata dalla situazione, non riesce ad avvicinarsi al pensiero di questi giovani, e resta un alieno che arranca alla cieca in un mondo per lui incomprensibile, vittima quasi piu' che carnefice, prima dipinto come persona di potere ma poi trattato come un idiota perfino al telefono da sua figlia. E arrivato alla fine, confuso, chiude il film con una frase che mi ha gelato nel suo totale tono di sconfitta: "Cosa pensi che dovrebbe dire un adulto ad un ragazzo ora?"
La habitación del niño (2006) di Álex de la Iglesia
Questa pellicola fa parte della serie televisiva spagnola Peliculas para no dormir, che similmente a Master of Horror si propone come terreno per produzioni di valore ma con budget piu' modesto (che, attenzione, non significa meno belle!). E questo episodio e' affidato ad uno dei registi che seguo sempre con attenzione, fin dai tempi del cultissimo Azione Mutante, passando per El dia de la Bestia e La Comunidad.
E fortunatamente anche in questo format non viene perso il corpus del suo stile. Ci troviamo infatti davanti un film derivativo, ma con intelligenza. Ispirandosi senza nascondersi a classici come Shining, Rosemary's Baby o le prime opere di Argento, riesce con abilita' a raccontare una storia che intriga da subito e non ti lascia fino alla fine. Il caratteristico umorismo nero del regista e' presente in ogni scena e aiuta a non appesantire il tono del racconto, che altrimenti poteva diventare troppo auto compiacente, ma invece permette di integrare perfettamente tutte le molteplici ispirazioni. E la sagacia dell'operazione non finisce qui: infatti inserendo nella narrazione elementi tipici della fantascienza in un contesto da storia di fantasmi (ad esempio l'introduzione delle teorie derivate dalla fisica quantistica), allarga ancora di piu' l'appeal di un prodotto gia' ottimo. Forza Alex, aspetto il prossimo!
E fortunatamente anche in questo format non viene perso il corpus del suo stile. Ci troviamo infatti davanti un film derivativo, ma con intelligenza. Ispirandosi senza nascondersi a classici come Shining, Rosemary's Baby o le prime opere di Argento, riesce con abilita' a raccontare una storia che intriga da subito e non ti lascia fino alla fine. Il caratteristico umorismo nero del regista e' presente in ogni scena e aiuta a non appesantire il tono del racconto, che altrimenti poteva diventare troppo auto compiacente, ma invece permette di integrare perfettamente tutte le molteplici ispirazioni. E la sagacia dell'operazione non finisce qui: infatti inserendo nella narrazione elementi tipici della fantascienza in un contesto da storia di fantasmi (ad esempio l'introduzione delle teorie derivate dalla fisica quantistica), allarga ancora di piu' l'appeal di un prodotto gia' ottimo. Forza Alex, aspetto il prossimo!
domenica 17 febbraio 2008
Cloverfield (2008) di Matt Reeves
Fin dall'infanzia sono sempre stato affascinato dai film di mostri, passione nata forse da un'acerba visione di uno dei primi Godzilla. In quel leggendario pseudo dinosauro non vedevo la gommapiuma, ne' mi accorgevo che i palazzi distrutti fossero dei modellini di legno e colla, ma nella mia immaginazione la devastazione portata da quella incredibile bestia era reale quanto un rispettabile telegiornale (e non parlo dell'odierno Studio Aperto). Questa passione si e' evoluta poi nell'interesse verso mostri di altro genere: che il soggetto fosse lo squalo, la piovra assassina o qualsiasi creatura con potere e dimensioni incredibili, per me era tutto buono. Se veniva stimolata anche minimamente con successo la primordiale paura di cio' che e' sconosciuto ed enorme, una visione se la guadagnava in ogni caso, nonostante spesso la cornice filmica non fosse delle migliori.
E forse a posteriori questa formazione ancora oggi mi regala (con frequenza non preoccupante naturalmente) dei fantastici sogni a sfondo apocalittico, il cui nucleo e' a grandi linee sempre lo stesso: ci sono io che mi muovo in luoghi familiari, che variano da quartieri in cui ho abitato a citta' famose che ho visitato, e in lontananza vedo un mostro enorme che cammina e distrugge. Dico mostro intendendo creatura incredibilmente grande, ma non e' mai la stessa, anche se spesso assomiglia all'archetipale anfibio del maestro Honda. Ed io sono la', per nulla spaventato ma completamente preda di uno stupore che e' il cardine di tutto il sogno. Non vengo mai messo in pericolo dalla situazione, il sentimento dominante e' quello della curiosita', spesso il mostro mi passa vicino o sopra, mai puntando verso di me con ostilita', e prosegue per la sua strada. Ed io lo osservo per tutto il tempo, sento le vibrazioni che produce muovendosi e il frastuono assordante. Altre volte faccio parte di qualche piano per fermarlo e allora l'esperienza viene arricchita dalla componente action, con connotati notevolmente filmici. E se in quei momenti qualcuno di quelli che sempre mi accompagnano stesse riprendendo, quello che vedrei sarebbe proprio cio' che ho vissuto nell'ora di Cloverfield che comincia con la prima esplosione. Rivedo la frenesia, la paura mista a curiosita', l'adrenalina della fuga ma soprattutto l'inquietante maestosita' di qualcosa che non conosciamo nella vita reale, qualcosa di talmente grande che non si puo' pensare fino a quando non ci si sbatte contro. Eserciti come soldatini, grattacieli che perdono la loro proporzione, tutto e' messo li' per farci vivere quei momenti di sincera meraviglia che e' il vero obiettivo del film. Non la paura ma la meraviglia, nascosta sotto la concitata sceneggiatura quasi da thriller, ma ben apprezzabile nei momenti chiave. Infatti sfido chiunque a non restare ammirato dalla prima parte della fuga, quando ancora del mostro si vede solo un'ombra che gira dietro gli angoli dei palazzi e poco altro. Pur sapendo abbastanza (marketing, youtube, trailers) ancora non si vuole credere, ed e' un risultato da ricordare.
Per quanto riguarda i lati negativi, lascio a voi la fantasia di pescare tra le recensioni in giro per la rete, poiche' non voglio stare qua a disquisire su telecamere indistruttibili o altri dettagli, ma preferisco godermi la messa in onda di un sogno.
E forse a posteriori questa formazione ancora oggi mi regala (con frequenza non preoccupante naturalmente) dei fantastici sogni a sfondo apocalittico, il cui nucleo e' a grandi linee sempre lo stesso: ci sono io che mi muovo in luoghi familiari, che variano da quartieri in cui ho abitato a citta' famose che ho visitato, e in lontananza vedo un mostro enorme che cammina e distrugge. Dico mostro intendendo creatura incredibilmente grande, ma non e' mai la stessa, anche se spesso assomiglia all'archetipale anfibio del maestro Honda. Ed io sono la', per nulla spaventato ma completamente preda di uno stupore che e' il cardine di tutto il sogno. Non vengo mai messo in pericolo dalla situazione, il sentimento dominante e' quello della curiosita', spesso il mostro mi passa vicino o sopra, mai puntando verso di me con ostilita', e prosegue per la sua strada. Ed io lo osservo per tutto il tempo, sento le vibrazioni che produce muovendosi e il frastuono assordante. Altre volte faccio parte di qualche piano per fermarlo e allora l'esperienza viene arricchita dalla componente action, con connotati notevolmente filmici. E se in quei momenti qualcuno di quelli che sempre mi accompagnano stesse riprendendo, quello che vedrei sarebbe proprio cio' che ho vissuto nell'ora di Cloverfield che comincia con la prima esplosione. Rivedo la frenesia, la paura mista a curiosita', l'adrenalina della fuga ma soprattutto l'inquietante maestosita' di qualcosa che non conosciamo nella vita reale, qualcosa di talmente grande che non si puo' pensare fino a quando non ci si sbatte contro. Eserciti come soldatini, grattacieli che perdono la loro proporzione, tutto e' messo li' per farci vivere quei momenti di sincera meraviglia che e' il vero obiettivo del film. Non la paura ma la meraviglia, nascosta sotto la concitata sceneggiatura quasi da thriller, ma ben apprezzabile nei momenti chiave. Infatti sfido chiunque a non restare ammirato dalla prima parte della fuga, quando ancora del mostro si vede solo un'ombra che gira dietro gli angoli dei palazzi e poco altro. Pur sapendo abbastanza (marketing, youtube, trailers) ancora non si vuole credere, ed e' un risultato da ricordare.
Per quanto riguarda i lati negativi, lascio a voi la fantasia di pescare tra le recensioni in giro per la rete, poiche' non voglio stare qua a disquisire su telecamere indistruttibili o altri dettagli, ma preferisco godermi la messa in onda di un sogno.
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